I materiali riportati fin qui attestano negli Stati Uniti -e in certi altri ambiti anglosassoni: lo attesta da anni 'The Economist", il settimanale più autorevole che ci sia- una riflessione avanzata sull'obsolescenza delle istituzioni. Constatano questa obsolescenza sia i fautori, sia gli avversari del nuovo ordine. Quanti auspicano così come quanti temono l'avvento della tecnopolitica. E' specialmente significativa la testimonianza di questi ultimi. Non sono sospettabili d'essere trascinati da entusiasmi, da nuovi fideismi. Al contrario, dichiarano un pessimismo di fondo. Dicono: il congegno repubblicano concepito per le condizioni di oltre due secoli fa è inevitabilmente superato. I mali odierni della democrazia americana sono innegabili e si aggravano: dalle lobbies corruttrici e dalle degenerazioni della politica ai costi parossistici delle competizioni elettorali. A causa di questi costi i ricchi godono di un privilegio inammissibile e coloro che non sono ricchi contraggono obblighi verso chi li finanzia. Tuttavia, sostengono gli scettici, la sola alternativa che si è profilata è peggiore dell'esistente. La democrazia elettronica è probabilmente ineluttabile, però darà il potere a una massa impreparata, facile preda dei demagoghi o della sua stessa emotività, ignoranza, superficialità, eccetera. Hanno ragione, anche se tacciono che sarà straordinariamente facile non dare il potere a questa massa. In ogni caso la loro testimonianza è eloquente. L'allarme che gridano, assai più che l'euforia dei partigiani del nuovo, dà la certezza: quello che chiamano l'Annibale della democrazia elettronica è veramente alle porte. Occorrerà vedere in che senso 'elettronica'. Questa presa di coscienza americana mette in cruda luce il ritardo dell'Europa e del resto del mondo, dove si continua a giurare sulla democrazia rappresentativa, e non si è informati sul ripensamento di fondo apertosi nel paese guida dell'Occidente. Il contrasto tra ideale democratico e concezione elitaria dura in Occidente da millenni. Il fatto nuovo è che gli USA hanno il triplo di computer rispetto all'Europa intera. In metà delle loro case è installato un modem. La information highway è in via di completamento. Altri sviluppi tecnologici stanno realizzando le condizioni -tra le quali l'interattività tra emittente e utente televisivo, nonché tra potere e cittadino- per cui tra 4-5 anni l'intera nazione sarà una Polis elettronica. A quel punto si imporrà la forza delle cose. Non solo le spinte politico-culturali, anche e forse soprattutto gli interessi economici -le leve stesse del mercato- toglieranno giustificazione al meccanismo politico concepito nel secolo XVIII. Poiché anche l'Europa e altre società industriali avanzeranno nell'innovazione tecnologica e strutturale, e poiché sono avvezze a seguire, con qualche intervallo, a ragione o a torto, le novità e, persino, le accentuazioni consumistiche provenienti dal Nord America, si può dubitare che i dilemmi della tecnopolitica si porranno con qualche intervallo anche da noi? In Italia per esempio, dove si contrappongono scelte di campo quali il maggioritario "con diritto di tribuna" per i micropartiti, il "proporzionale con sbarramento", il maggioritario secco, il proporzionale puro, e simili relitti del passato, quando le elezioni non erano irrilevanti. E' anzi possibile che questo o quel segmento del mondo avanzato colga in modo particolarmente vigoroso e reattivo la sfida dei tempi nuovi, e perciò sorpassi in creatività la sperimentazione avviata nel Nord America. Il Giappone e la Corea non hanno battuto l'Occidente su terreni, p.es. l'elettronica di consumo, che non erano loro? E l'Italia, col congegno politico peggiore del mondo avanzato, che avrà da perdere se esplorerà le sponde nuove della democrazia fatta "neo-ateniese" dall'agorà telematica?


I TERMINI DEL DIBATTITO STATUNITENSE




L'Establishment politico americano si compone dei politici di carriera, dei grossi giornalisti e di un esiguo segmento di accademici che si fa coinvolgere nel dibattito civile. Di fronte alla sfida della tecnodemocrazia i politici di professione reagiscono abbassando il profilo. Tacciono, o mandano cauti segnali di possibilismo. Per non parlare del loro capofila, il presidente Clinton, cui in un primo tempo si attribuiva, assieme ad altre ambizioni, quella di avviare la democrazia del futuro prima di lasciare la Casa Bianca; e che in ogni caso ha saputo stabilire, grazie alla quotidiana consultazione dei sondaggi, una straordinaria consonanza con l'uomo della strada. Pur avendo dimostrato di non meritarne la fiducia. Insomma la classe politica gioca su due tavoli, difesa dell'esistente e puntata sull'innovazione. Fanno invece i conservatori intransigenti, gli assertori della concezione elitaria di George Washington, Alexander Hamilton e James Madison, i grandi nomi del giornalismo e gli scolastici delle università. Sostengono che la democrazia senza delega:

1) minaccia la libertà e assegna troppo potere alle maggioranze popolari, a scapito delle minoranze e dei dissenzienti. L'ipotesi che il cittadino divenga partecipe della sovranità, o quanto meno venga a disporre di un filo diretto col potere, spaventa: ("elimina i filtri tra impulsi popolari e volizioni legislative");

2) espone i cittadini alla manipolazione di chi governa o dei demagoghi. Le decisioni istantanee, si sostiene, sono cattive in quanto non consentono la riflessione; in ogni caso permettono solo scelte e contrapposizioni rigide, senza le mediazioni tipiche dei politici. Quella che i passatisti chiamano videocrazia degenererebbe in tirannia (elettronica) nella misura in cui la volontà popolare si forma sulla sollecitazione delle domande provenienti dall'alto. Nei plebisciti come nei sondaggi, si usa sostenere, le risposte dipendono dalle domande.

Abbondano le varianti delle secolari argomentazioni "contra tyrannos". Per esempio: se la democrazia diretta, pur non abolendo le istituzioni parlamentari (molti novatori in realtà ne prevedono la fine in quanto superflue, anzi dannose) le costringerà ad applicare i deliberati del popolo, le assemblee elettive, si sostiene, legifereranno come vuole la piazza elettronica, non secondo saggezza. Il ragionamento discende dal presupposto che i soli professionisti della politica siano saggi e che la società civile sia fatta di un'immensa plebe inarticolata e ignorante. Che cioè non esista un largo ceto coltivato nel quale le risorse culturali e quelle etiche siano largamente superiori a quelle medie dei carrieristi politici. Il catalogo delle obiezioni di principio affiorate negli Stati Uniti -si danno poi numerose obiezioni non al concetto della democrazia diretta ma alla sua attuabilità- può chiudersi per ora con due proposizioni, una strettamente ideologica, l'altra storico-giuridica e in sostanza legittimistica. La prima: ci sono sfere nelle quali la maggioranza "è bene non prevalga" in quanto maldisposta verso l'evoluzione progressista della società e del costume. Si tratta specialmente del trattamento delle minoranze, dei non bianchi, degli omosessuali, dei dissidenti estremi, dei trasgressori. L'obiezione storico-giuridica: la Costituzione del 1789 non si fidò del popolo, volle una repubblica governata dai maggiorenti, non una democrazia. I Padri Fondatori proteggevano lo Stato contro le masse di scarsa qualificazione.
Confutazioni non ardue
La più globale delle tesi contro l'abolizione della delega ai politici di mestiere è quella della tirannia elettronica. Chi controlla la televisione, si argomenta, può schiavizzare l'opinione pubblica; sui plebisciti fonderebbe la dittatura. Ma -a parte che anche i "plebisciti" sono cambiati; organizzarli è molto più difficile che un tempo- la realtà contemporanea contraddice la saggezza convenzionale secondo cui la televisione è il Grande Fratello. Essa è accusata di produrre omologazione e conformismo politico proprio là dove in effetti è un di più. I regimi cinese e nordcoreano sarebbero fortissimi anche se non esistessero i piccoli schermi. Questi ultimi esistono, certo non per i disegni dei governanti, e sono resi "instrumenta regni". Ma non è per i televisori che il potere si perpetua. Al contrario, sono le telecomunicazioni che sulla distanza permettono di ammorbidire o liquidare i regimi, così come hanno contribuito ad abbattere il comunismo europeo. In realtà la tv e le altre tecnologie per comunicare fomentano il pluralismo. Il monopolio televisivo non è servito al partito comunista sovietico e alle "democrazie popolari" dell'Est europeo. Nemmeno a Silvio Berlusconi, quando governava, sono bastati la proprietà delle emittenti proprie e il controllo su quella pubblica. E negli Stati Uniti non si conosce il nome di un signore della televisione che sia o cerchi di diventare un Grande Fratello. La televisione, specialmente ma non soltanto nei paesi liberi, quando diventa pervasiva ha già generato le condizioni che prima o poi riducono il potere politico di chi gestisce le antenne. Intanto perchè in Occidente è impossibile dominare tutte le emittenti. Non dovessero sorgere antagonisti televisivi, l'ipotetico regime telecratico si logorerebbe ugualmente: soprattutto per i suoi processi disgregativi e competitivi interni. Infatti la televisione, se cerca di manipolare e di condizionare, produce anche consapevolezza e attitudine critica. Spostando il discorso dall'universale (dove il vero e proprio plagio televisivo risulta fenomeno marginale e limitato nel tempo) agli Stati Uniti, emerge l'astrattezza dei timori per la libertà. L'eccesso di pluralismo, e non il suo contrario, è una seria contestazione mossa alla società americana: per esempio da alcuni leader politico-sociali della Malaysia, di Singapore, del Giappone, ancor più della Cina. Allora immaginare un'America irreggimentata dietro un tiranno televisivo è immaginare un paese diverso da quello che esiste. Il problema si porrà se cambierà. In teoria l'America che c'è potrebbe un giorno identificarsi temporaneamente in un capo carismatico. Tuttavia manterrebbe la capacità critica che l'accompagna da quando si ribellò al Re britannico. Conserverebbe l'attitudine a giudicare il leader volta per volta e in funzione dei valori, interessi, capricci e fobie di ciascun cittadino. Verso la fine del suo mandato la popolarità del presidente Bush scese dal 91 al 30 per cento. Questa mobilità o volubilità strutturale è un antidoto contro il plagio che possa essere tentato da chi voglia farsi dittatore. Ross Perot ha provato sulla sua le cinghiate dello spirito critico. Per pochi giorni, essendo fino a quel momento uno sconosciuto politico, fu in testa alla gara per la Casa Bianca. Poi il vento cambiò. Se non avesse fatto una proposta dirompente -il town meeting elettronico- non sarebbe entrato nella storia. Dunque l'America è sì catturabile, ma difficilissima da tenere. Si aggiunga, nella fattispecie, che Perot non possedeva stazioni televisive. Per occupare i teleschermi spendeva mezzo milione di dollari ogni 30 minuti. Senza dubbio questo ripropone il problema del privilegio conferito dal denaro anche in politica; ma è questione non specifica alla materia televisiva. Si calcola che un candidato "serio" alla Casa Bianca debba spendere per la campagna 20, persino 30 milioni di dollari. Delle due l'una: o li possiede, e in tal caso gode del privilegio plutocratico; oppure no, ed è costretto a "vendersi" a chi glieli dà. Circostanza quest'ultima che cancella la rappresentatività democratica del candidato eletto, a qualsiasi livello. Un contorno laterale del problema dell'indebito vantaggio conferito dal denaro è che i politici ricchi del loro sono favoriti dal presupposto che non abbiano bisogno di farsi corrompere, quanto meno di assumere impegni coi finanziatori. La dipendenza dei politici dal denaro delle lobbies è lamentata universalmente, e l'uomo della strada sente il problema più acutamente dei politologi. I costi dell'elettoralismo sono una delle grandi argomentazioni a favore della fine del sistema rappresentativo. Per i pessimisti sono, semplicemente, la giustificazione di un pessimismo sistematico. Nell'America quale è, la tirannia elettronica risulta impossibile anche per motivi diversi da quelli esposti. Non esiste un grande network radiotelevisivo pubblico, né monopolistico né concorrente coi privati (esiste una piccola rete culturale e "civica"). Dunque nessuno può venire a disporre di una radiotelevisione di Stato per il fatto di insediarsi alla Casa Bianca; e nessuno riuscirebbe a crearla. In America i mezzi d'informazione sono privati e fortemente competitivi. Che in queste condizioni l'accesso ai media, anche elettronici, possa essere difficile per chi non sia seguace del Presidente è semplicemente inverosimile. Non è mai accaduto. Il vertice politico non riesce a monopolizzare l'informazione e la verità. Tra l'altro il Presidente non solo non controlla gli altri grandi poteri (Congresso, magistratura, capitalismo, opinione pubblica) ma non può contare su un proprio partito stabile. Per un'emittente che si mettesse al servizio di un aspirante tiranno, "n" emittenti farebbero un business del contrastare quell'aspirazione. Perché non andasse così occorrerebbe un'America che non c'è e che diverrà ancora più inimmaginabile tra pochissimi anni, quando il paese sarà avvolto da una ragnatela di fibre ottiche e l'ipotetica "televisione del Presidente" dovrà competere, al limite, con milioni di "emittenti": tanti quanti saranno i proprietari di un apparato informatico, gli abbonati a circuiti telematici, gli utenti di sistemi avanzati di telecomunicazione. Sarà questo il contesto per la "tirannia televisiva"? A chi riuscirà di gestire una democrazia plebiscitaria? Per mietere plebisciti occorrono plebi schiavizzate. Chi le ha mai avute negli USA?
Quali minoranze
Se la società americana è la più pluralistica che ci sia, non ha senso parlare di minacce per le minoranze dal tramonto della democrazia parlamentare. Il pluralismo fornisce di per sé tutte le garanzie e le opportunità generate dalla forza delle cose. Le garanzie e le opportunità non spontanee dovrebbero essere imposte dal potere; non trovano dunque posto in questa discussione, interamente riferita a un ambito nel quale nulla accade che la società non accetti. Messa così è una deviazione concettuale affermare, come fa un autore statunitense, Christopher Georges ("Washington Monthly"): "Gli americani condividono in maggioranza punti di vista che è meglio non prevalgano, come la pena di morte, i campi di disciplina per consumatori occasionali di droghe, le discriminazioni contro i gruppi non patriottici, la punizione gli spettacoli e scritti osceni, la preghiera nelle scuole, il divieto di rapporti omosessuali tra adulti consenzienti, e così via". Se i punti di vista opposti -niente pena di morte, niente punizione per droghe, etc.- fossero largamente condivisi, se ne esigerebbe il sopravvento nel nome del principio della maggioranza. Visto che non sono condivisi, si invoca che vengano imposti dall'alto. La verità è che i teorizzatori progressisti si considerano depositari di una saggezza più avanzata, meritevole di sospendere la democrazia. Invece il solo diritto spettante ai portatori di istanze minoritarie o devianti è di tentare di farle divenire maggioritarie. I diritti in più di cui godono nella società permissiva sono elargizioni della maggioranza, spesso non sagge ma invece opportunistiche. Nello specifico americano gli omosessuali, i consumatori di droghe leggere, i non bianchi e gli altri godono già di libertà larghissime. La maggioranza avrebbe pieno titolo a ridimensionare queste ultime. Quando si riprenderà la sovranità che le appartiene lo farà, se vorrà.
Legittimismo
Un'altra argomentazione contro la democrazia "neo-ateniese" promana dalla pura e semplice diffidenza contro le novità, nonché da un riflesso legittimistico. Non si teme più il Grande Manipolatore coi suoi plebisciti. Si teme il popolo sovrano. La democrazia diretta sarebbe pericolosa in quanto potere autentico e troppo immediato dell'uomo della strada. Servono filtri, si asserisce, cioè ostacoli tra la volontà popolare e le scelte legislative. Contro le contrapposizioni nette dei referendum occorrono le mediazioni degli addetti ai lavori. Per questo la Costituzione americana, come tutte le altre, impedisce di legiferare velocemente. I contrappesi tra poteri, la lentezza degli iter, le resistenze degli interessi costituiti proteggono contro le scelte impulsive o semplicistiche. L'esigenza che la deliberazione sia meditata è naturalmente sacrosanta. Invece ciò che va negato in toto è che gli investiti della delega deliberino bene, nell'interesse della collettività. Il sistema parlamentare-partitico è degenerato al punto di imporre costi senza confronti superiori ai benefici. Per gli Stati Uniti, cui si usava accreditare un congegno politico ammirevole, valga il fatto che sempre più americani sono scontenti: giudicano di avere un sistema inquinato senza speranza dall'avidità dei politici e "lento come un ghiacciaio". Se il costo e la difficoltà di farsi eleggere costringono i politici a tradire il loro mandato -questa sintetica caratterizzazione è dello "Economist"- anche la lentezza di funzionamento del congegno è dovuta all'esistenza stessa dei professionisti della vita pubblica. I quali in certe situazioni praticano la vera e propria rapina: si veda il primo mezzo secolo della Repubblica italiana. Divenuti governanti o leader di partito, si trasformano in ladri anche gli studiosi insigni e le anime belle. I rappresentanti del popolo costituiscono in tutto il mondo, con sensibili differenze dovute a storie e livelli etici differenti, un ceto di Proci usurpatori e ladri. Impadronitisi della reggia, gozzovigliano sulle carni e sui vini altrui. Finché non torna Ulisse. Il senso della democrazia diretta (selettiva), oggi, è appunto nel cacciare i Proci. Quanto al richiamo dei legittimisti americani alla carta statutaria del 1789, esso è nella sostanza fraudolento. Il mondo è troppo cambiato dal 1789, quando gli Stati Uniti erano un paese di foreste senza strade, qua e là insediato da pionieri all'oscuro di tutto. Oggi sono prossimi ad essere interamente cablati dalle fibre ottiche, cioè a ritrovarsi la prima Polis elettronica della storia. Sono fondati invece i moniti contro la democrazia istantanea ed eccessiva, cioè contro un possibile degrado della deliberazione se i legislatori fossero centinaia (negli USA) di milioni. La più naturale, e agevole, difesa contro il pericolo di deliberazioni affrettate, impulsive, comunque non savie, è che nessuna questione importante venga decisa senza due, tre o più reiterazioni, ai giusti intervalli, del voto popolare. Ma, soprattutto, nulla impone che il popolo sia sempre chiamato intero a legiferare. E' logico e giusto limitare l'assemblea generale della nazione a poche occasioni di importanza eccezionale e su temi semplici da definire. Della maggior parte delle deliberazioni vanno investiti piccoli segmenti di popolo, selezionati a sorte tra quanti posseggano oggettive qualificazioni; ai quali segmenti sia facile, nella Polis telematica, fornire tutti gli elementi e le opportunità di giudizio. Questi campioni di popolo si avvicenderebbero a turno per sorteggio (o con meccanismi migliori, se venissero trovati). Risultato: due milioni, per esempio, di americani, o mezzo milione di italiani, sarebbero per turni brevi cittadini-legislatori: impegnati nella funzione deliberativa, cioè in un "servizio politico" concettualmente vicino al servizio militare. Più specificamente, vicino al servizio che le persone sorteggiate -all'interno di categorie di cittadini che posseggono i requisiti voluti dalla legge- devono prestare nelle giurie penali. Si tratterebbe pur sempre di una delega dai tutti ai pochi: però senza meccanismi elettorali; e per turni brevi, cioè cancellandosi la carriera politica. Finito il turno, i cittadini-legislatori, o supercittadini, uscirebbero dagli elenchi del "servizio politico"; quanto meno per lunghi intervalli. Alcune delle ipotesi che si formulano negli Stati Uniti contengono appunto elementi di rotazione nella funzione legislativa di settori "temporaneamente sovrani" della cittadinanza. Tale rotazione era normalmente praticata nelle molte città elleniche che si conformavano al modello ateniese. A Tebe e in Beozia i cittadini di pieno diritto erano divisi in quattro sezioni, ognuna delle quali a turno agiva da assemblea legislativa ristretta. L'assemblea di tutto il popolo deteneva un potere di ratifica finale; lo esercitava di rado. Più ancora il meccanismo delle sezioni agiva ad Atene, combinato coll'altro meccanismo, concettualmente analogo, del sorteggio dei magistrati. Nella Costituzione di Clìstene, che dette la forma definitiva alla democrazia ateniese del secolo V, i demi attici eran raggruppati in 10 tribù, ciascuna delle quali componeva la "pritania" (giunta di governo), per una decima parte dell'anno.
Macro-giurie di cittadini sovrani
E' non solo inevitabile ma desiderabile che i cittadini "sovrani", o supercittadini, siano pochi. L'eccesso di democrazia uccise il sistema ateniese. A parte le rare occasioni referendarie di tipo tradizionale, protagonisti della democrazia diretta selettiva (elettronica, o se si preferisce telematica) dovrebbero essere segmenti o macro-campioni di popolo: per esempio un cittadino "attivo" o "sovrano" sorteggiato (per turni brevi) ogni 100 persone in possesso di determinati requisiti di cultura, di esperienza lavorativa, di meriti civici quali p.es. il volontariato. Tra i supercittadini si sorteggerebbero successivamente, con criteri di selezione progressivamente più ardui, le persone da investire di brevi mandati negli organismi oggi elettivi: dai consigli comunali e di quartiere alle assemblee regionali e nazionali. I parlamenti nazionali dovrebbero essere monocamerali, contare assai meno membri che oggi e costare una frazione della spesa attuale. Tra i sorteggiati a fare i consiglieri comunali si selezionerebbero a sorte i membri e i capi dell'esecutivo del comune. Idem per i livelli regionali e nazionali. Gli elenchi dei sorteggiabili diverrebbero sempre più ristretti, e sempre in rapporto a requisiti oggettivi, col crescere d'importanza degli incarichi da assegnare. Un artigiano esperto, una madre di famiglia, un diplomato sarebbero idonei a servire nel consiglio di un piccolo comune o di una circoscrizione di base. Persone con qualifiche via via superiori sarebbero selezionabili, a sorte, per organismi e funzioni progressivamente più elevati. Chi guidi una grande impresa o una centrale sindacale del livello massimo, chi abbia raggiunto traguardi professionali o culturali di vertice, potrebbe essere sorteggiato per un turno nel governo o alla sua guida. Anche alla guida dello Stato, naturalmente; ma là dove il capo dello Stato non avesse concrete responsabilità esecutive ma invece un ruolo simbolico di rappresentanza nominale del Paese, potrebbe essere sorteggiabile, a turno, un qualsiasi cittadino degno, non caratterizzato delle eccezionali qualificazioni di chi dovesse esercitare funzioni esecutive del livello più alto. A rotazione, dunque, un numero considerevole di cittadini in possesso di certi titoli sarebbero chiamati ad essere protagonisti della democrazia diretta: a partecipare in proprio al processo politico in generale e, segnatamente, alla deliberazione. Mentre la popolazione nel suo assieme sarebbe destinataria dell'informazione di massa, secondo le possibilità via via più ricche consentite dagli avanzamenti tecnologici e culturali, i "supercittadini" riceverebbero (o sarebbero messi in grado di procurarsi) gli ulteriori elementi di giudizio idonei a fare di essi a) un corpo referendario ristretto per frequenti consultazioni ufficiali per campione, b) l'elenco nel quale sorteggiare i membri temporanei degli organismi rappresentativi e degli esecutivi, ai vari livelli.
Dimenticare il suffragio universale
Il passaggio alla democrazia assoluta ma selettiva esige l'abbandono delle convenzioni e finzioni che si riassumono nel suffragio universale. Lungi dall'essere potere della folla, il "ritorno ad Atene" conseguente al risorgere telematico della Polis sarebbe il governo "dei migliori", selezionati casualmente (random) tra quanti vantino qualifiche ben superiori a una semplice iscrizione all'anagrafe. In America da 220 anni, altrove da meno, il suffragio universale è fallito sia ai fini del buongoverno, sia a quelli della promozione artificiale dei segmenti sociali inferiori. Soprattutto in America, i divari di reddito e di cultura tra le classi si sono allargati al di là di tutte le previsioni; il suffragio universale è stato dunque sconfitto quale agente livellatore. Attraverso il voto le masse popolari possono certamente conferire delega a fazioni schierate dalla loro parte. Tuttavia la forza delle cose -le leggi economiche in prima linea- e i mali invincibili del professionismo politico tengono i ceti popolari in un'inferiorità che, almeno quanto a distribuzione del reddito, si accentua invece di ridursi. L'Occidente sa ormai con certezza che il congegno elettorale esprime i peggiori, dal punto di vista etico. Essi non possono che tradire la fiducia, non possono che essere indegni della delega. Dopo due secoli d'esperienza, questa tesi non ha più bisogno di dimostrazione. Tutti sanno che è così: soprattutto negli Stati Uniti, dove il sistema rappresentativo è praticato da più tempo e con meno limitazioni. Del resto, solo in apparenza e sul piano dell'impostura il suffragio universale è una conquista delle masse. Sempre meno i beneficiari della delega elettorale appartengono ai ceti inferiori. Gli operai sono spariti dai parlamenti e dai consigli. I sindacalisti di qualche livello sentono di appartenere al ceto medio. Sul piano più propriamente politico, i leader che ricevono più voti dai proletari, anzi che ne ricevono tanti da trovarsi al potere, governano in modi indistinguibili da quelli della tradizione di destra. Clinton taglia la spesa sociale e muove guerre, Jospin, D'Alema e altri statisti socialdemocratici obbediscono anch'essi alla logica del potere, la quale impone di ignorare l'origine dei suffragi che fecero vincere le elezioni. Impone di non tener conto delle aspirazioni, normalmente illusorie, degli elettori. Alle soglie del 2000, perciò, nessuno più crede seriamente che il voto sia l'arma delle masse popolari. Esse ottengono né più né meno di quanto è compatibile col contesto generale (regole del mercato, globalizzazione, interessi di altri ceti, cento altri condizionamenti e circostanze). La differenza non è più nel "chi governa" (cioè a chi va il suffragio popolare) bensì nelle situazioni di governo. I sottoprivilegiati non possono attendersi nulla dalla prevalenza dei loro voti. Possono sì sperare nel buongoverno: ma esso non si sceglie nella cabina elettorale, visto che le elezioni selezionano e premiano i peggiori. La scomparsa dello strumento elettorale non escluderà, anzi postulerà l'impegno ad innalzare i livelli di consapevolezza e di esperienza delle masse inferiori, di modo che sempre più individui acquistino i requisiti per essere ammessi nella cittadinanza della Polis elettronica. Per essere chiamati dal computer al ruolo di cittadini attivi, anzi "sovrani". Dunque reclutare in modo nuovo i gestori della cosa pubblica non implica affatto passare da un metodo elettorale all'altro. La malattia terminale della rappresentanza ha colpito indifferentemente tutti i paesi, non importa se a sistema proporzionale, maggioritario o misto. Cambiamento significa liquidare le elezioni. Significa cancellare la delega ai politici di carriera -abolendo la carriera- e delegare a turno coloro che il computer, non gli elettori e meno ancora i loro organizzatori, sceglierà "randomcraticamente", in rapporto non al nome e cognome ma alle qualificazioni. Così vengono scelti i membri delle giurie, investite della funzione giudiziaria più decisiva, quella di sentenziare la colpevolezza o l'innocenza. Le giurie sono un campione di popolo perchè la giustizia promana dal popolo. Non potendosi chiamare il popolo ad amministrare la giustizia, se ne chiama un campione: la giuria. Il concetto di macrogiuria è stato evocato da più parti nel dibattito americano, quale implicazione logica del passaggio dalla democrazia delegata a quella "diretta". Diretta per campione, o a turno: come nell'Ellade, dove nacque la democrazia stessa. Nel tempo del suo splendore Atene, come molte altre città greche, esprimeva la maggior parte dei suoi capi attraverso il sorteggio, non attraverso il voto. Il momento più alto della storia di Atene fu quella "età di Pericle" (sec.V a.C) nella quale i cittadini-legislatori reggevano sia la città, sia il suo impero. Ebbene le deliberazioni che non spettavano tassativamente alle istanze assembleari della democrazia diretta erano devolute ai designati dal sorteggio. Tutti coloro che avevano la pienezza dei diritti civili (essenzialmente i nati da padre e madre ateniesi, qualunque la loro condizione sociale) erano legislatori e potenziali governanti. Il sistema funzionava anche perché i cittadini veri erano pochi. E anche la democrazia diretta della Information Age dovrà essere "di pochi": solo i prescelti dalla sorte (random) all'interno di categorie qualificate. Per facilità abbiamo chiamato "supercittadini" quelli che ad Atene erano i detentori della piena cittadinanza. Per la verità il sistema funzionava, venticinque secoli fa, anche grazie a un correttivo importante: alcuni ottimati ambiziosi, ricchi di beni e dotati di carisma, esercitavano una forte influenza. Pericle ne esercitò tanta che dette unità e nerbo al governo basato sulla democrazia diretta e sul sorteggio. La Repubblica di Pericle, precedentemente organizzata da Clistene, fu lo Stato più avanzato del mondo antico. Fu l'intelligenza dell'Ellade, la quale era l'intelligenza dell'Occidente. Ideò e praticò quella democrazia diretta selettiva che il nostro mondo dovrà riscoprire quale sola alternativa al parlamentarismo fallito o allo Stato autoritario. Tra le due guerre l'Europa sperimentò quest'ultimo in grande; salvo la Gran Bretagna, che però si è spenta come grande nazione, dunque la fedeltà liberale non le giovò. Nemmeno gli Stati Uniti si fecero tentare dal totalitarismo: ma stanno per passare alla democrazia elettronica, mandando in disarmo quella parlamentare. Tutt'a un tratto la randomcrazia -democrazia diretta basata sul sorteggio- è resa praticabile dalla rivoluzione tecnologica: computer, telematica, televisione interattiva, teleconferenze, sondaggi immediati, referendum permanenti. In qualsiasi momento è possibile conoscere in modo "istantaneo" la volontà o le inclinazioni dei cittadini. Straordinariamente facile è poi consultare campioni d'opinione. Per questo la provocazione di Ross Perot, nel 1992, fece tanto effetto. Quell'anno le elezioni presidenziali statunitensi dettero a lui, un candidato improvvisato, mai attivo in politica, poco meno di un quinto dei voti. La metà di quelli (38%) andati al presidente Bush. Gli osservatori più attendibili, compresi quelli molto ostili alla democrazia diretta, constatarono che gli americani erano durevolmente stanchi di appaltare la sovranità ai politici di mestiere; erano alla ricerca dell' alternativa. Dei giovani sotto i 24 anni solo il 17% si cura di andare a votare. L'affluenza alle urne alle elezioni generali mid-term del 1994 si aggirò sul 38%. Perot colpì l'immaginazione con un'idea rivoluzionaria: svuotare le istituzioni rappresentative, all'estero ritenute maestose e amate; scavalcare sia il Congresso, sia le altre assise della democrazia più che bicentenaria. "Torniamo al town meeting visto che la tecnologia ce lo permette" proclamò Perot. Nelle città meno grandi del New England il town meeting era, in qualche misura ancora è, la democrazia diretta. Deliberano tutti i residenti riuniti in assemblea. Le condizioni dell'America moderna e di ogni altra società di massa erano considerate opposte a quelle della pristina democrazia del New England, riaffioramento dell'assemblea degli ateniesi. Invece l'esplosione tecnologica consente appunto la cacciata dei politici usurpatori. Di qui, dalla paura delle rivoluzioni copernicane, la larga ostilità, più che di questi ultimi, dei giornalisti e degli intellettuali correnti. Il town meeting elettronico, per loro, è la fine di un'era.

QUARTA PARTE in italiano

 

 

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